LUNACAMUNA - ZEBLOG
lunedì 27 febbraio 2023
Elezioni in Lombardia - Crisi della democrazia, labirinti istituzionali, globalizzazione
In questa quarta riflessione si parla di democrazia e confini: internazionali, nazionali, locali, di interdipendenze e condizionamenti, di percezione di questi da parte dei cittadini.
Negli ultimi decenni si è arrivati a percepire che gran parte delle questioni cruciali che interrogano le democrazie occidentali sono di livello mondiale e non sono governabili a livello nazionale o locale.
Basta accennare a temi come le disuguaglianze, il caos climatico, i progressi tecnologici, il mercato dei dati, il sistema finanziario e tanti altri ancora. Percepiamo il livello globale di questi temi, ma restiamo legati a “livelli cognitivi” nazionali e locali.
Sono livelli inadeguati, lo sappiamo, ma la democrazia rappresentativa ci propone istituzioni a questi livelli.
Il livello più adeguato ad affrontare sul piano istituzionale i temi globali non esiste e anzi, dopo gli sforzi successivi alla seconda guerra mondiale, il periodo d’oro della pianificazione internazionale, gli organismi che si muovono in questa direzione, dall’ ONU al WTO sono negli ultimi anni costantemente delegittimati.
Di fatto tutti sperimentiamo ogni giorno la globalizzazione, ma questa procede per strade proprie, che solo in minima parte dipendono da decisioni politiche di qualcuno di specifico e riconoscibile. Il cambiamento climatico, il diffondersi di nuovi modelli di organizzazione del lavoro, l’incremento delle disuguaglianze, ecc. non dipendono da una persona specifica. Determinano la vita di tutti ma non sono decisi da nessuno né governati da istituzioni democratiche.
Ecco quindi che si assiste al paradosso di una politica istituzionale che governa poco ma che in compenso, poiché è l’unica istanza rappresentativa, è percepita come causa di tutti i mali.
Per stare sul piano nazionale e locale, il labirinto istituzionale del nostro Paese ci propone di esprimerci per il parlamento europeo (che emanerà direttive su temi specifici e parziali, quelli che gli stati membri hanno delegato alla UE), per il parlamento italiano, per l’assemblea regionale, per il consiglio del comune e, nel caso di grandi città, per i consigli di zona del comune. Tutti questi livelli sono dipendenti l’uno dall’altro (per motivi finanziari, per direttive, norme e reciproci pareri cui attenersi).
Anche a livello nazionale è di fatto impossibile stabilire i confini delle diverse competenze e responsabilità e infatti qualsiasi opera di rilevante interesse pubblico è sempre oggetto di imprimatur o di scaricabarile, a seconda dell’esito. E nessuno è in grado di stabilire i fatti senza essere smentito il giorno dopo.
Anche qui, nel dubbio, è la democrazia con le sue istituzioni che paga il biglietto per tutti.
Questo senso di impossibilità a cambiare il corso degli eventi è stato riscontrato appartenere anche agli uomini più potenti del mondo, non c’è quindi da stupirsi che questa mancanza di presa sul futuro investa tutti i cittadini, un senso di impotenza che può facilmente trasformarsi in rabbia.
Quanto detto finora costituisce una delle diverse cause di crisi della democrazia rappresentativa (a livello globale e locale) che può presentarsi in diverse forme: dall’astensionismo (tanto votare non conta niente) all’indifferenza per le diverse persone che i partiti candidano (tanto sono tutti uguali), alla delegittimazione (meglio che la politica e lo stato stiano “fuori dalle balle”), a quel "odio vago di tutto e di tutti, senza oggetto definito... " (cit. Hanna Arendt) che può arrivare anche ad eventi eclatanti come l’assalto al parlamento degli USA, una delle democrazie più antiche e collaudate del mondo occidentale.
Elezioni in Lombardia - Crisi della democrazia e velocità
Elezioni in Lombardia - Crisi della democrazia e velocità
Questa terza riflessione non si riferisce in particolare alle scorse elezioni regionali perché è più generale, ma è a mio parere molto importante. Parlo di velocità dei cambiamenti economici e sociali nel mondo globalizzato e della capacità di reazione decisionale delle democrazie rappresentative.
E’ evidente che la globalizzazione sociale e economica e lo sviluppo di nuove tecnologie ha portato ad abbattere le barriere di tempo e spazio nelle decisionali e nelle azioni conseguenti, così come nel diffondersi dei comportamenti sociali, veicolati dalla rete e in particolare dai social network: i movimenti di capitali sono immediati, quelli delle merci molto più veloci che in passato, i modelli di lavoro e i comportamenti sociali si diffondono in tempi brevissimi da una parte all’altra del pianeta.
La democrazia rappresentativa è una forma di governo complessa e faticosa, sottoposta a condizioni politiche e procedure codificate nei tempi e nei modi.
In sintesi, la democrazia è lenta.
Gli esempi potrebbero essere molti, basti pensare allo spostamento da un luogo all’altro di masse di denaro che potrebbero mettere in seria difficoltà un intero Paese, o al blocco di navi porta container con carichi alimentari necessari alla sopravvivenza di popolazioni, o al diffondersi di forme di protesta da un Paese all’altro nel giro di pochi giorni. Ho citato esempi drammatici per capirci meglio, ma ogni giorno ne accadono moltissimi meno rilevanti ma ugualmente pertinenti al concetto.
Ebbene qualsiasi democrazia, anche se normalmente efficiente, è costretta a prendere atto, analizzare se e quanto la situazione debba essere oggetto di norme specifiche, e nel caso mettere in pratica il relativo percorso decisionale per arrivare ad un atto formale. Ovviamente, come è giusto, normative e interventi sono sottoposti a diversi livelli decisionali per poi essere sottoposti ai dovuti livelli di verifica e appello, oggetto di possibili livelli di ricorso.
In sostanza una corsa ad “inseguire”. Non un governo dei fenomeni ma il tentativo di “aggiustare” processi già in atto, e nonostante l’ampio ricorso a decreti d’urgenza e simili (con relative rituali accuse di scavalcamento dei poteri del Parlamento) al termine del percorso l’oggetto della norma è già altrove e tutto il processo rischia di avere efficacia limitata.
Un paio di esempi che chiariscono meglio il concetto: lo spostamento di sede da un paese all’altro di grandi gruppi industriali (che rappresentano pezzi rilevanti dei PIL nazionali) o le rapide mutazioni del mondo del lavoro (dall’avvento delle piattaforme online al home working) che lasciano milioni di lavoratori in un limbo senza tutele e senza regole.
Non è un problema nuovo, perchè già riconosciuto nell’antica Roma, quando di fronte a situazioni di crisi si faceva ricorso alla nomina di un “dictator”, una persona con pieni poteri che durava in carica fino a quando non aveva svolto i compiti assegnati per poi uscire dalla propria carica. Un po’ il meccanismo cui assistiamo oggi con i governi “tecnici”, nominati nei casi di crisi di crisi che non trovano soluzioni parlamentari tradizionali.
Negli ultimi anni il problema si sta rivelando come costante elemento di crisi delle democrazie rappresentative occidentali, sia in termini di efficacia che di autorevolezza del sistema, alimentando nei cittadini la sensazione che il mondo corra veloce mentre il sistema istituzionale è fermo o perlomeno in costante ritardo, alimentando il senso di impotenza, il disinteresse, o la ricerca di pericolose scorciatoie.
sabato 25 febbraio 2023
Elezioni in Lombardia – Sulla divaricazione tra centri urbani e provincia
E’ questo un secondo argomento di riflessione sulla crisi della democrazia a partire dai dati delle elezioni regionali.
Non è un tema nuovo, se ne parla da parecchi anni, non è un tema solo nazionale perché riguarda tutte le democrazie rappresentative occidentali (non conosco i dati di realtà non occidentali), ma è un tema importante e interessante, perché un sistema istituzionale che non riesce ad affrontare queste spaccature sociali rischia di saltare.
Partiamo da noi e dai dati che ben conosciamo. Nella tornata elettorale regionale del 2023 i risultati sono:
Fontana 1.774.477 pari al 54,67%
Majorino 1.101.417 pari al 33,93%
Vediamo come è andata invece nelle principali città.
Comune di Milano :
Fontana 160.781 pari al 37,69%
Majorino 199.760 pari al 46,83%
Comune di Bergamo:
Fontana 29.682 pari al 41,29%
Majorino 31.473 pari al 44,28%
Comune di Brescia:
Fontana 29.682 pari al 43,46%
Majorino 31.473 pari al 46,09%
Come si vede, nelle maggiori città lombarde l’esito del voto è stato l’opposto di quello generale, e il voto progressista è stato ampiamente maggioritario. E’ un trend ormai abbastanza consolidato: la curva dei consensi “progressisti” cresce di pari passo con la popolazione, dai minimi nelle comunità sotto ai 5mila abitanti a massimi nelle città sopra i 300mila.
Lo stesso destino che è capitato in Gran Bretagna a Londra in occasione di Brexit, in USA a New York o San Francisco, in Francia a Parigi, in Danimarca a Copenaghen… insomma dovunque.
Il caso lombardo fa piazza pulita anche delle risposte semplicistiche (come sempre non esistono risposte semplici a problemi complessi) tipo “le città dei ricchi” ecc., perché quando parliamo della “provincia lombarda” parliamo di zone dove i redditi medi viaggiano su valori ben superiori alla media nazionale, con un Pil pro capite stimato a oltre 35.000 euro annui.
Come dice il politologo Roberto Biorcio, tra gli studiosi più attenti al tema «Può sembrare paradossale, ma proprio in regioni ricche e con pochi migranti si tende a chiedere più chiusura. Nel Nord conta l'aspetto di difesa del proprio benessere».
Io propongo anche una lettura sociologica: sembra quasi che in situazioni di scarso scambio relazionale e minori stimoli culturali, come può accadere nei piccoli centri, prevalga la paura nei confronti del “nuovo” e il timore che questo proponga nuove inquietanti “presenze” (immigrati), o porti via i figli, fuori dal “rifugio”, alla ricerca di altro.
E poi il senso di inadeguatezza al confronto politico, la distanza percepita dai centri decisionali e la conseguente delega al solito politico locale di turno, visto come “garante” del benessere acquisito e del flusso di capitali pubblici e delle consuete promesse di misure fiscali favorevoli (spesso mantenute).
A differenza di altri paesi come gli USA (con i fanatici trumpiani all’assalto del parlamento) o la Francia (con i gilet gialli), dalla ricca provincia lombarda non sembrano emergere fenomeni di ribellione o segnali di rivolta violenta, piuttosto un tentativo di chiudersi nelle proprie consolidate certezze, nella proprie roccaforti, magari covando un po’ di insofferenze verso le «élite» delle città.
Elezioni in Lombardia – Riflessioni sulla democrazia
Stupito ed amareggiato dall’esito del voto in Lombardia non ho scritto nulla per giorni. Ho studiato il voto ed ho riletto appunti. I problemi che ne vengono fuori vanno molto oltre la singola tornata elettorale e ho deciso di evidenziare alcuni temi, che posterò nei prossimi giorni come “la questione della democrazia”, “la politica debole (e lo Stato fuori dalle balle)”, “la questione città – non città”, ecc.
La questione della democrazia
La democrazia rappresentativa è certamente la forma di governo più equa e compiuta. Ma è una forma di governo complessa e lenta, ed impone condizioni difficili e faticose perché possa dirsi “compiuta”
La formula dell’elezione democratica a suffragio universale ad esempio necessita, per essere credibile, di una base di cittadinanza numerosa e attiva, informata e consapevole.
Se la maggioranza che esprime il governo è legittimata dal voto del 22% dei cittadini, come è successo in Lombardia, la credibilità viene meno. Non la legittimità rispetto alle norme, ma la credibilità, che può essere anche più importante.
Nel 2018 andò così:
Fontana 2.793.369 pari al 49,75%
Gori 1.633.373 pari al 29,09% (meno 20,66%)
Nel 2023 invece
Fontana 1.774.477 pari al 54,67%
Majorino 1.101.417 pari al 33,93% (meno 20,74%)
La differenza tra i due candidati di centrodestra e centrosinistra è stata in percentuale la stessa di cinque anni fa (20,1%), ma i votanti, su 8.010.538 aventi diritto, sono stati solo 3.339.019 (41,68%), e la differenza tra i due candidati in numero di voti è stata la metà: da 1 160.000 del 2018 a circa 670.000 voti quest’anno.
Tra qualche settimana, non appena entrerà a regime il nuovo governo lombardo, queste cifre saranno dimenticate, come è fatale che sia, ma gli interrogativi sulla credibilità del sistema restano, anche perché l’istituto di ricerca Eumetra ha evidenziato che moltissimi cittadini lombardi non erano neanche a conoscenza della tornata elettorale per eleggere il presidente della loro regione. Altro che “astensionismo di protesta”, qui si tratta di colpevole ignoranza dei propri diritti e doveri verso le istituzioni.
Di certo la campagna elettorale è stata poco incisiva, direi impalpabile, e resta da valutare se ciò sia frutto di scelta consapevole da parte dei partiti o pura incapacità.
Ricordo per inciso che se la base elettorale si assottiglia servono sempre meno voti per affermarsi, e il risultato è quindi più facile preda sia dei gruppi di interesse organizzati, sia di chi usa in modo spregiudicato gli strumenti di comunicazione, in particolare telematici, in grado di indirizzare il voto.
Resta la sensazione di una democrazia rappresentativa che rappresenta poco e di un suffragio sempre meno “universale”, senza alcuna risposta all’orizzonte ma con il rischio sempre più incombente di un qualcuno “che metta a posto le cose”.
giovedì 8 settembre 2016
Riflessioni sulla Riforma costituzionale
Quest’estate mi sono dedicato ad approfondire la riforma costituzionale: mi sono preparato un bel malloppo con i testi comparati, una raccolta di opinioni pro e contro, e mi sono studiato il tutto. Non mi andava di votare senza conoscere la materia né di adeguarmi ai cori di favorevoli o contrari “a prescindere”.
Per chi è interessato (in particolare alcuni amici che me lo hanno chiesto) farò in settimana non più di due o tre post riassuntivi sui temi che mi sembrano più rilevanti e quel che penso in proposito.
Premetto però che non parlerò d’altro che della riforma su cui dovremo votare: pro e contro della normativa attualmente in vigore e pro e contro in caso di riforma. Per cui:
- Non parlerò di riforme che avrebbero potuto o dovuto essere, perché in questo contesto è inutile e fuorviante: sul piatto c’è questo, ed è solo su questo che si dovrà decidere.
- Non parlerò di Renzi, Boschi, ecc. perché credo che il referendum costituzionale proponga nuove regole e sia importante per questo, e che non debba essere utilizzato per “mandare a casa” qualsiasi governo (ci sono strumenti diversi e adatti al caso).
- Non parlerò di “tentativi di golpe”, ecc. perché credo che la proposta dalla riforma si collochi nella tradizione democratica e repubblicana e che l’assetto istituzionale proposto sia simile a molti altri sistemi di paesi democratici.
Partiamo per l'analisi della riforma.
I “Principi fondamentali” (art. 1 – 13) e la “Parte 1 – Diritti e doveri dei cittadini” (art. 14 – 54) della Costituzione non sono oggetto della riforma e restano invariati.
La prima parte importante della riforma riguarda la composizione e le competenze del Parlamento (art. 55 – 82).
Si tratta del sistema di formazione delle leggi, quindi dell’abolizione del Senato come camera paritaria e della sua trasformazione in organo di rappresentanza di regioni e comuni, ma anche di altre cose molto importanti.
La situazione attuale, che vede Camera e Senato paritari, ha origine nel fatto che i due schieramenti che diedero vita alla Costituzione, uscendo da un’esperienza come quella del fascismo e non si fidandosi l’uno l’altro scelsero questa via. Un modo per cautelarsi i cui limiti furono immediatamente evidenti (Luigi Sturzo affermò “solo da noi il Senato è un duplicato della Camera”), ma che garantiva entrambi.
Un paradosso è che le due camere, pur avendo le stesse competenze, non rappresentano lo stesso corpo elettorale, dato che l’attuale Senato non è eletto a suffragio universale ma solo dai maggiori di 25 anni (non rappresentando così circa 4 milioni di cittadini). Non ci si pensa mai ma è davvero assurdo e va avanti così dal 1948, in contrasto con l’art. 48 delle Costituzione (“Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età”) .
Con l’abrogazione dell’art. 58 la riforma pone fine a questa anomalia.
L’attuale sistema di bicameralismo “perfetto” ha avuto costi altissimi per il Paese: ogni volta che un provvedimento di spesa è passato da un ramo all’altro del parlamento ha visto crescere il peso dell’intermediazione dei partiti e altri interessi, incrementare i costi e allungare i tempi, tanto che il meccanismo di formazione delle leggi previsto dall’art. 72 è di fatto inapplicato da decenni (nel 2014 su oltre 4.000 proposte di legge presentate da membri del Parlamento Italiano, solo 26 furono approvate), mentre quello di “proposta di legge popolare” prevista dall’art. 71 è stato applicato in pochissimi casi.
Insomma, il sistema di formazione delle leggi oggi non funziona.
Vediamo ora le principali modifiche proposte dalla riforma.
La riforma propone l’abolizione della parità tra le due camere, l’attuale Senato è sostituito da un nuovo organo formato da rappresentanti eletti nei consigli regionali (74 in proporzione alla popolazione residente) e sindaci (21, uno per regione), più 5 senatori nominati dal Presidente della repubblica. Questo cambiamento si esprime dall’art. 48 ai seguenti.
L’idea del legislatore è di un organo che porti in parlamento la “voce dei territori”, lasciando alla Camera il rapporto di fiducia e di controllo sul Governo. Questo nuovo Senato non interviene su tutte le leggi ma solo su alcune (leggi costituzionali o che riguardano materie particolari, enti locali, trattati UE, e altre specificate dall’art. 70) e può, a maggioranza assoluta, formulare proposte di legge alla Camera.
Il Senato diventa una camera permanente, in quanto i membri sono aggiornati ad ogni elezione dei consigli regionali (i 74 di cui sopra) o delle città (i 21 sindaci). I rappresentanti in fase di istituzione saranno eletti dai consigli regionali, e credo sia giusto così, dato che dovranno rappresentare la Regione che li ha eletti.
Ma la proposta di riforma non riguarda solo il Senato:
- il nuovo articolo 71 introduce novità importanti sugli strumenti di partecipazione dei cittadini: le proposte di legge popolare non potranno essere ignorate ma dovranno essere discusse in modi e tempi certi e regolamentati (le firme necessarie passano da 50 a 150mila);
- l’articolo 71 istituisce anche il nuovo meccanismo del referendum propositivo e di indirizzo;
- il vecchio referendum abrogativo (art. 75) vede una modifica che dovrebbe rendere più difficile la vita a chi spesso lucra sull’astensionismo: con 800mila firme il quorum si abbassa (dalla maggioranza assoluta a quella delle ultime elezioni);
- alla Camera sono posti vincoli di tempi certi nell’esaminare le proposte di legge del governo (art. 72)
- con l’art. 77 si introduce il divieto, per la Camera, di inserire emendamenti che non c’entrano nulla con l’oggetto delle leggi in fase di conversione in legge dei decreti , mentre vengono inoltre inseriti in costituzione i limiti del governo alla decretazione d’urgenza (che finora erano disciplinati da leggi ordinarie).
A mio parere questi aspetti della riforma sono positivi, perché permetteranno iter legislativi più trasparenti e veloci e più facile riconoscimento delle responsabilità.
Molto interessanti le innovazioni che riguardano la partecipazione diretta (referendum propositivo e abrogativo, leggi di iniziativa popolare), strumenti nuovi o potenziati, che la società civile dovrà imparare ad usare al meglio.
Gli aspetti negativi nel merito riguardano alcune situazioni specifiche, come ad esempio i senatori eletti dal presidente della repubblica o la permanenza nel Senato degli stessi presidenti emeriti.
Una critica di forma che condivido è quella espressa da Rodotà sul fatto che la riforma non è un esempio in fatto di scrittura (in senso giuridico). E’ vero, ad esempio l’ art. 70 sulle competenze fa riferimento ad articoli e commi di altre leggi, un vizio che, trattandosi di articoli della Costituzione, doveva essere evitato. Ma va detto che che il Parlamento è intervenuto con mediazioni, emendamenti e riscritture su ben 27 dei 43 articoli del testo proposto dal Governo.
Questo è l’esito e, come dicevo in premessa, su questo dobbiamo decidere.
Titolo II – il Presidente della Repubblica (art. 83 – 91)
Qui non ci sono grandi novità: i poteri e il ruolo del Presidente restano invariati, mentre cambia la modalità di elezione (art. 83): non basterà più la maggioranza semplice dopo il terzo scrutinio, ma sarà necessaria la maggioranza dei 3/5 dell’assemblea (fino al sesto scrutinio) o dei 3/5 dei votanti (a oltranza).
Giudizio: da una parte c’è una certa garanzia che non sarà la sola maggioranza ad eleggere il “rappresentante dell’unità nazionale”, dall’altra, come dire? le cose potrebbero andare per le lunghe…
Titolo III – il Governo (art. 92 – 99)
Anche qui, salvo gli adeguamenti agli articoli precedenti, ad esempio il rapporto di fiducia si stabilisce solo con la Camera, cambia poco. L’unica novità è la soppressione del CNEL (Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro) organo di consulenza (finito chissà perché in Costituzione) residuato di una legge del 1957 di cui credo ben pochi sentiranno la mancanza.
Titolo IV – la Magistratura (art. 100 – 113)
Qui tutto resta come prima, senza modifica alcuna (chi tocca muore).
Titolo V – le Regioni, le Province, i Comuni (art. 114 – 133)
Questo è l’altro grosso pezzo della riforma che merita attenzione.
Com'è la situazione attuale?
Nel 2001 fu approvata una riforma che ampliava notevolmente le funzioni delle regioni, anche su temi di interesse nazionale. Ricrdate termini come devolution, sussidiarietà federalismo? Bene, gli esiti di quella riforma non sono stati granché:
il contenzioso tra Stato e regioni, generato dall’idea di “legislazione concorrente”, ha praticamente impegnato senza sosta la Corte costituzionale per 15 anni;
l’aumento enorme dei costi della politica nelle regioni;
lo squilibrio di trattamento dei cittadini tra una regione e l’altra, anche su temi cruciali come sanità e assistenza.
Insomma, anche su questo tema molte cose non funzionano e moltissimo ci sarebbe da fare.
La riforma propone una modifica di rotta chiara:
- L’art. 117 è quello più importante, perchè stabilisce le materie che diventano di competenza esclusiva dello Stato (ad esempio “disposizioni generali per la tutela della salute”, “tutela e sicurezza del lavoro”, ”commercio con l’estero”, “infrastrutture strategiche”, ecc.), elimina il ginepraio delle materie oggetto di “legislazione concorrente”, stabilisce una “clausola di supremazia” a favore dello Stato sulle regioni nel caso di necessità di tutela dell’interessa nazionale.
Addirittura l’art. 122 stabilisce in Costituzione che gli stipendi ai consiglieri regionali non possano superare quello del Sindaco del Comune capoluogo della Regione!
In cambio di queste oggettive limitazioni, regioni e comuni trovano una sede di rappresentanza dei propri interessi ed una potenziale “camera di compensazione” nel nuovo Senato (se sapranno farlo funzionare a dovere).
Alcune altri articoli interessanti per diversi aspetti sono:
- L’art. 114 propone l’abolizione di ogni riferimento alle province. Ricordo che ciò non significa l’abolizione degli enti, che continuano ad esistere e lavorare (ad esempio manutenendo le strade e le scuole superiori)
- L’art. 116 non tocca il regime delle “regioni autonome”. In compenso consente maggior autonomia alle regioni che presentano un bilancio positivo.
- L’art. 118 introduce a livello costituzionale i concetti di semplificazione e trasparenza dell’azione amministrativa
Sulle modifiche al Titolo V non ho grandi dubbi: trovo che siano corretti e mettano le premesse per mettere fine ad alcune situazioni il cui giudizio negativo è ormai ampiamente condiviso.
A mio parere molte cose mancano, piuttosto: dall’eliminazione delle regioni autonome ad una revisione della attuale e anacronistica suddivisione regionale (che senso hanno oggi Molise o Val d’Aosta?)…
Ma qui vengo meno a quello che avevo affermato in premessa: dobbiamo decidere sulla riforma che c’è, non su quella che avremmo voluto, e le uniche domande pertinenti sono:
- la riforma costituzionale proposta ci consegna un sistema parlamentare ed in generale un sistema di formazione delle leggi più efficiente e più efficace dell’attuale?
- la riforma costituzionale proposta ci consegna una regolamentazione dei rapporti tra Stato e regioni più chiaro, più equo, più efficiente dell’attuale?
Spero che questi spunti, ed il mio sforzo di semplificazione, vi siano utili per riflettere e decidere.
Se qualcuno vuole approfondire ancora ecco alcuni link utili.
Documento dei 5 costituzionalisti per il NO
Guida ragionata alla riforma - Guida corposa e completa di Carlo Fusaro
Articolo per il Corriere di Sabino Cassese
Una guida sintetica
venerdì 4 settembre 2015
Le immagini sono più forti delle parole
L’immagine del povero bimbo morto in mare ha aperto una gran discussione sui media tradizionali. A parte l’usuale ritardo rispetto alla rete (le immagini avevano già fatto il giro del mondo il giorno prima) il discorso è interessante e anche importante. Difficile da fare in breve su FB, ma ci provo.
Le immagini hanno più forza delle parole per diverse ragioni, sia psicofisiche (maggior “accesso” a livelli profondi) che culturali (l’immagine, al contrario delle parole, non può essere confutata).
Per questo io credo che siano le immagini a segnare gli episodi della recente storia del mondo e la percezione istintiva e profonda che abbiamo di essi (non servono esempi, credo) . Per questo bisogna averne rispetto e cautela nella loro diffusione o censura.
La mia opinione sulla linea discriminante minima è abbastanza semplice: non si devono in nessun caso pubblicare immagini funzionali alla propaganda. Ad esempio Isis ha da tempo messo in atto una strategia di comunicazione finalizzata a diffondere il terrore in occidente e al reclutamento di nuovi combattenti. Pubblicare i loro prodotti (foto e video) significa contribuire alla diffusione della guerra.
Questo è il discrimine minimo, ma anche l’unico certo. Altri se ne possono aggiungere: ad esempio immagini di sangue spesso sbattute in primo piano per qualche click o qualche copia in più, come l’assassinio dei due giornalisti in Virginia trasmesso alla leggera (e secondo me sbagliando) dalle nostre testate principali (e non da BBC, Le Monde, Guardian, NYT, Washington Post, El Pais, ecc.).
Ma si tratta di scelte che vanno compiute di volta in volta, magari motivandole, con attenzione e rispetto per le immagini e consapevolezza.
Questo non avviene spesso, anzi, e forse le immagini del povero bimbo Aylan saranno servite anche a questo. Grazie a Nilufer Demir, la fotografa turca che le ha fatte e proposte al mondo.
Le immagini hanno più forza delle parole per diverse ragioni, sia psicofisiche (maggior “accesso” a livelli profondi) che culturali (l’immagine, al contrario delle parole, non può essere confutata).
Per questo io credo che siano le immagini a segnare gli episodi della recente storia del mondo e la percezione istintiva e profonda che abbiamo di essi (non servono esempi, credo) . Per questo bisogna averne rispetto e cautela nella loro diffusione o censura.
La mia opinione sulla linea discriminante minima è abbastanza semplice: non si devono in nessun caso pubblicare immagini funzionali alla propaganda. Ad esempio Isis ha da tempo messo in atto una strategia di comunicazione finalizzata a diffondere il terrore in occidente e al reclutamento di nuovi combattenti. Pubblicare i loro prodotti (foto e video) significa contribuire alla diffusione della guerra.
Questo è il discrimine minimo, ma anche l’unico certo. Altri se ne possono aggiungere: ad esempio immagini di sangue spesso sbattute in primo piano per qualche click o qualche copia in più, come l’assassinio dei due giornalisti in Virginia trasmesso alla leggera (e secondo me sbagliando) dalle nostre testate principali (e non da BBC, Le Monde, Guardian, NYT, Washington Post, El Pais, ecc.).
Ma si tratta di scelte che vanno compiute di volta in volta, magari motivandole, con attenzione e rispetto per le immagini e consapevolezza.
Questo non avviene spesso, anzi, e forse le immagini del povero bimbo Aylan saranno servite anche a questo. Grazie a Nilufer Demir, la fotografa turca che le ha fatte e proposte al mondo.
venerdì 28 agosto 2015
Letture estive 2015
Letture estive – 1: “Numero zero” di Umberto Eco.
Un romanzo breve (200 pagine per Eco son pochissime) che, prendendo a pretesto le Milano del 1992 (quella di “Mani pulite”) racconta il disastro del giornalismo d’informazione dei nostri giorni: un’idea di giornale cialtrone che nella testa dell’editore non vedrà mai la luce, ma che riunisce una redazione di ignari collaboratori, intorno ai quali si sviluppa la vicenda.
Il mio giudizio sul mondo dell’informazione nostrano è molto severo, e mi fa piacere trovarmi in compagnia del grande Umberto Eco che evidentemente parla ai lettori di oggi, mettendoli in guardia dal prendere sul serio le notizie e chi le racconta (sia attraverso i media tradizionali che, oggi, attraverso la rete, come testimoniano le recenti dichiarazioni del professore).
La lettura è piacevole, lo humor non manca, le citazioni sono al solito numerose e raffinate anche se il ritmo della storia sconta un po’, a mio parere, l’intento “pedagogico”. Non siamo, per capirci, nei dintorni di capolavori come “Il pendolo di Foucault”.
E’ comunque una lettura che ho apprezzato e che consiglio, riconoscendo a Eco, anche nella sua versione narrativa, il consueto impegno nel promuovere cultura e consapevolezza. Non dimentichiamo che parliamo di un testimone importante del nostro Paese: questo libro, come tutti i suoi, sarà tradotto e distribuito in decine di paesi in tutto il mondo, e un libro che svela i meccanismi del cattivo giornalismo è un buon segnale per l’Italia, stabilmente piazzata agli ultimi posti per la libertà di stampa.
Letture estive – 2: “Città aperta” di Teju Cole
Un libro che avevo in lista dallo scorso anno e che mi incuriosiva per le buone recensioni e per il profilo del giovane autore, che è anche fotografo, di madre tedesca e padre nigeriano, cresciuto in Nigeria alla scuola militare e arrivato adolescente negli Stati Uniti.
Si tratta delle riflessioni di Julius, il protagonista, studente di psicologia che vaga per le strade di New York tracciando piccole storie, ritratti di persone e luoghi, con una visione particolare, distaccata e a volte un po’ allucinata. Tratta la megalopoli come una serie di cittadine di provincia, abitate da gruppi a sé stanti; di nessuno di questi Julius si sente parte, sebbene nessun ambiente o personaggio si presenti in modo minaccioso, tutt’altro. Eppure Julius non è mai coinvolto pienamente, vive in un suo mando, dal quale ci invia microstorie che non mancano di qualità narrativa e suggestione.
Una lettura complessa, che non consiglierei proprio a tutti: bisogna aver voglia di entrare in questo mondo un po’ astratto, senza alcuna speranza di trovare una vicenda compiuta, una storia finita… passeggiare per le strade di new York a fianco di Julius, seguirne il filo dei pensieri può essere suggestivo ma anche faticoso.
Letture estive – 3: “I giorni dell’eternità” di Ken Follett
Ho finalmente completato la monumentale trilogia del ‘900 del grande maestro, un’opera davvero imponente (circa tremila pagine in tutto) che racconta il mondo contemporaneo attraverso le vicende di cinque dinastie di diversi paesi - una americana, una tedesca, una russa, una inglese e una gallese - le cui storie si intrecciano lungo tutto il secolo scorso e fino ai giorni nostri.
Quest’ultimo tomo riparte dagli anni ’60, con la presidenza Kennedy e le lotte antirazziste negli USA, l’Europa in piena guerra fredda e l’Unione sovietica a fare i conti con il post stalinismo.
I rischi di un’opera di questa entità sono secondo me due: il primo di farne un trattato storico, dato che le vicende più importanti sono puntualmente citate; il secondo di perdersi nella complessità e nel gran numero di personaggi, vicende e ambienti che si susseguono, entrando e uscendo di scena. Follett evita entrambi i rischi con straordinaria abilità: le vicende vedono sempre al centro i personaggi che le interpretano a più voci attraverso i loro sentimenti e i meccanismi di identificazione del lettore non scadono mai, nessun personaggio è lasciato a metà ed ognuno conserva la propria identità e credibilità.
Non credo che molti altri autori sarebbero stati in grado di concepire e portare a termine una saga di questo genere ma Follett è unico. La trilogia del ‘900 (i primi due sono “La caduta dei giganti” e “L’inverno del mondo”) si piazza a pieno titolo accanto ai suoi grandi romanzi storici, “I pilastri della terra” e “Mondo senza fine” (di cui conservo copia autografata). Consigliatissimo anche per i figli: se amano la lettura direi che non c’è modo più divertente di studiare la storia di un’epoca spesso trascurata dai programmi scolastici.
Letture estive – 4: “Il cacciatore del buio” di Donato Carrisi
Carrisi è esploso nel 2009 con “Il suggeritore”, prima opera ed a mio parere uno dei più bei romanzi di autore italiano degli ultimi anni. Da allora non ho più mollato il bravo ed eclettico Carrisi (scrittore, criminologo, sceneggiatore e giornalista) giunto a questo suo quinto lavoro, che è il secondo che vede protagonista Marcus, il prete “penitenziere” senza memoria de “Il tribunale delle anime”, che ha la capacità di scovare le anomalie ed i fili della follia omicida.
L’abilità di Carrisi di inchiodare il lettore, di spingerlo a condividere le speranza e le paura dei protagonisti è ampiamente confermata anche in questo libro, che è opportuno leggere dopo il precedente.
Lettura consigliata per gli amanti del genere, anche se non siamo alle vette, forse inarrivabili, della prima opera.
Letture estive – 5: “Breaking news” di Frank Schatzing
Schatzing l’ho conosciuto con “l diavolo nella cattedrale” (il Medioevo è il mio pane narrativo), ma la rivelazione è stato ovviamente “Il quinto giorno”, un libro impegnativo (oltre mille pagine) e davvero geniale, coinvolgente e ben supportato da un solido impianto scientifico, che mi ha fatto sperare in un nuovo Crichton. Da allora leggo ogni suo libro, e anche quest’ultimo ha riservato buone sensazioni, anche se un po’ controverse. Si tratta di due vicende separate: da una parte la nascita di Israele e la vita di Ariel Sharon e di alcuni suoi coetanei che hanno costruito lo Stato ebraico; dall’altra la vicenda attuale di un giornalista che si ritrova per le mani documenti segreti sulla morte del leader e nuove minacce fondamentaliste. Insomma storia e spy story.
Lavoro complesso dal quale Schatzing esce in modo incompiuto. La parte storica funziona ed anzi mi ha dato uno spaccato molto interessante della storia del movimento sionista, la parte che vede protagonista il reporter Tom Hagen si trascina un po’ lungo le oltre mille pagine del libro (anche con uno stile narrativo discutibile) per decollare solo nel finale, dove finalmente il ritmo sale e conduce ad un finale classico e ben narrato. Insomma un libro che mi ha soddisfatto solo in parte, anche perché l’eclettico Frank ha già dimostrato di poter fare di meglio.
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