mercoledì 25 febbraio 2009

Noi e i figli: un dialogo di Gaber

Il mio amico Nino, qualche giorno fa mi ha girato questo dialogo di Gaber.
Me lo sono letto con calma, mi è piaciuto e mi ha fatto pensare.
Eccolo qua:

" Io, quella volta lì, avevo sessant’anni.
Eravamo nel 2000 o giù di lì. Praticamente ora.

E vedendo le nuove generazioni, i venticinquenni di ora così diversi mi domando:
che eredità abbiamo lasciato ai nostri figli?
Forse, in alcuni casi, un normale benessere. Ma non è questo il punto.
Voglio dire … un’idea, un sentimento, una morale, una visione del mondo …
No, tutto questo non lo vedo.

Allora ci saranno senz’altro delle colpe.
Siamo stati forse noi padri insensibili, autoritari, legislatori di stupide istituzioni?
No. Allora dove sono le nostre colpe?

Un momento, era troppo facile per noi essere pacifisti, antiautoritari e democratici.
I nostri padri avevano fatto la Resistenza. Forse avremmo dovuta farla anche noi, la Resistenza.
E’ sempre tempo di Resistenza.

Perché invece di esibire il nostro atteggiamento libertario non abbiamo dato uno sguardo all’avanzata dello sviluppo insensato?
Perché invece di parlare di buoni e di cattivi non abbiamo alzato un muro contro la mano invisibile e spudorata del mercato?
Perché avvertivamo l’appiattimento del consumo e compravamo motorini ai nostri figli?
Perché non ci siamo mai ribellati alla violenza dell’oggetto?
Il mercato ci ringrazia. Gli abbiamo dato il nostro prezioso contributo.

Ma voi, sì, voi come figli, non avete neanche una colpa?
Dov’è il segno di una vita diversa? Forse sono io che non vedo.
Rispondetemi: dov’è la spinta verso qualcosa che sta per rinascere?
Dov’è la vostra individuazione del nemico?
Quale resistenza avete fatto contro il potere, contro le ideologie dominanti, contro l’annientamento dell’individuo?

D’accordo, non posso essere io a lanciare ingiurie contro la vostra impotenza. C’ho da pensare alla mia.
Però spiegatemi: perché vi abbandonate ad un’inerzia così silenziosa e passiva?
Perché vi rassegnate a questa vita mediocre senza l’ombra di un desiderio, di uno slancio, di una proposta qualsiasi?

Forse il mio stomaco richiede qualcosa di più spettacolare, di più rabbioso, di più violento? No!
Di più vitale, di più rigoroso, qualcosa che possa esprimere almeno un rifiuto, un’indignazione, un dolore …

Quale dolore? Ormai non sappiamo neanche più cos’è, il dolore.
Siamo caduti in una specie di noia, di depressione …
Certo, è il marchio dell’epoca.
E quando la noia e la depressione si insinuano dentro di noi tutto sembra privo di significato.

Il dolore è visibile, chiaro, localizzato, mentre la depressione evoca un male senza sede, senza sostanza, senza nulla … salvo questo nulla non identificabile che ci corrode."

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